Maps to the Stars
Le stelle non bruciano piano
Sia che si occupi di storie di mafia russa, di Jung, o di ristoratori dell’Indiana, David Cronenberg non può fare a meno di parlarci di corpi, di corpi pulsanti e vivi che reagiscono in relazione alla mente e che da essa non possono prescindere. Questa volta le macchine desideranti, i corpi incompatibili alle pulsioni, sono ad Hollywood, sul sentiero di stelle che brama fama e successo, riconoscimenti per il proprio talento in quell’isola (Los Angeles) in cui ognuno ha un soggetto speciale nel cassetto.
Il soggetto della propria vita fisica.
Così è Agatha (Mia Wasikowska) che arriva a Los Angeles con lo stupore negli occhi, la voce svelta e piena di intime sensazioni da esprimere e la fronte giovane di chi sa che dirà parecchi sì. Se ne infischia dei problemi del suo corpo, della pelle bruciata che la rende una “sfregiata”, quella deformità fisica la nasconde sotto a degli eleganti guanti di pelle a gomito, racconta bugie, ha parecchi progetti e uno su tutti è quello di “fare ammenda” dei suoi errori.
Poi c’è Benjie (Evan Bird), una specie di Justin Bibier, baby idolo dei telefilm per bimbiminchia 3.0, pluripagato e pluripremiato tanto da non desiderare altro che pastiglie per l’umore. Pilotato da una coppia di genitori/agenti (John Cusack e Olivia Williams) tanto simili e ricchi da sembrare fatti di una sola unica carne bianca, flaccida e ghirurgicamente indeformabile. Anche in Benjamin il corpo è una gabbia irrigidita, una maschera consenziente, che si lascia “ferire” dai suoi genitori senza che ne rimanga traccia, perché la chiave del successo e della fama è nell’eterna giovinezza.
E infine c’è Havana (Julianne Moore), la precoce menopausata attrice in decadimento e in terapia, che attende, tra un vicodin e uno yoga Samadhi la chiamata nel ruolo di un film sulla vita che fu di sua madre. In lei il corpo è in tensione verso una giovinezza andata, è massaggiato, spinto, palpato nella sua tonicità e incoraggiato ad uscire. L’oggetto della sua terapia è il suo ego che prende vita in forma di personaggio, quello di sua madre appunto, che appare di tanto in tanto come un fantasma per insultarla.
Tra dialoghi lunghi ed estranianti, primi piani plastificati e grotteschi, fantasmi, cocktail parti e flaconi colorati di pastiglie, le vite di questi corpi si andranno a mischiare fino allo svelamento di “una verità”, di un “nome” quel nome che ricorre più volte nella poesia di Agatha:
Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome
Un nome che si scrive sulle stelle per strada, un nome che brucia piano ed è impronunciabile da questi corpi eternamente infantili e bucati.
Buchi che a Cronenberg sono sempre piaciuti (ExiztenZ, Shivers) buchi meravigliosi, luoghi di ogni desiderio di carne, di cui Havana e il fantasma di sua madre si contendono la bellezza.
«Ti piacciono i miei buchi?». «Ti piacerebbe entrare nei miei buchi?» domanda Havana all’autista/attore Pattinson, l’unico forse con un corpo che non si ribella alla mente.
Il film si spinge oltre, come sempre Cronenberg sa fare. Oltre la trama, oltre le storie singole, oltre la critica di una società finta e mostruosa come quella di Hollywood, per parlare di pulsioni profonde che trovano pace solo nell’assenza che non desidera e nella nuda solitudine.
Sul rinnovato vigore
Sullo scomparso pericolo
Sulla speranza senza ricordo
Io scrivo il tuo nome
E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti,
Libertà.
Giuliana Liberatore