Cinema Critica

The Story of Film: An Odyssey GRAN BRETAGNA (2011) di Giuliana Liberatore

 

 

 

 

 

 

Sono passati otto anni dall’uscita di The Story of Film: An Odyssey  del regista irlandese Mark Cousins.
Dopo averlo visto per due volte a distanza di anni in estenuante binge watching, la cosa che rimane negli occhi sono le Bollicine. Prima appaiono nella birra di James Mason ne il Fuggiasco di Carol Reed poi nella schiuma caduta sul tavolo e poi di nuovo in un film di Jean-Luc Godard, che a Carol Reed rende omaggio. Infine altre Bollicine appaiono nel bicchiere dell’aspirina in Taxi Driver di Martin Scorsese.
Le 15 puntate della raccolta dedicata al cinema sono una strepitosa opera che unisce film di tutti i generi, 900 minuti diretti e montati con intelligenza e chiarezza, con collegamenti, rimandi, associazioni visive, archivi e piccole scoperte emotive che avvolgono lo spettatore, sia il cinefilo esaltato che quello più distante dalla materia storica. L’opera ha il coraggio di abbracciare le cinematografie di tutto il mondo, in una specie di vademecum dell’immagine e dell’occhio, per sapere tutto su ciò che è stato girato in ogni angolo del mondo, scoprendo con cura e passione storie provenienti dall’Iran, dal Giappone, dalla Romania in anni lontanissimi tra loro…

Anche se è passato del tempo e adesso è impegnato in altri progetti sul cinema, Mark Cousins ha deciso di rispondere alle nostre domande:

Una delle cose che mi ha colpito è stata la scena tagliata del film di Charlie Chaplin, nel secondo episodio: quella in cui Chaplin osserva e gioca con un pezzo di legno incastrato nella grata.
Quando si scrivono le sceneggiature spesso ci sono scene che poi i produttori o gli head writer chiedono di tagliare, perché considerate inutili ai fini della narrazione, ma che per l’autore sono semplicemente poetiche e giuste da tenere lì.Vorresti conservarle come una specie di feticcio: tu le definisci “brevi poesie inserite in un romanzo”.
Come hai trovato quella piccola scena scomparsa? Hai trovato momenti simili in altre pellicole? 

La scena è stata trovata dallo storico del cinema Kevin Brownlow, mi pare. L’ho paragonata a una scena del film “Bad Timing” (1980) di Nicolas Roeg. Questi momenti sono segni della crescita sotterranea del film, come una sorta di radice  nascosta che cresce dentro il film e lo muta.
Hitchcock e Claire Denis ne fanno uso. Sono spesso del tutto non narrative.

Nel documentario racconti a un certo punto, che nonostante l’industria di Hollywood e i soldi e il mercato, la gente andava al cinema soprattutto per il linguaggio specifico del cinema, che sembrava capace di esprimere le emozioni e stimolare lo spettatore in una maniera nuova, cosa che un certo cinema commerciale non sembra più capace di fare. Pensi che al cinema, come mercato per il grande pubblico, ci possa essere ancora spazio per degli autori coraggiosi? Non credi che gli autori trovino spazio soltanto nei festival?

Per me la scelta non è tra cinema commerciale e film che usano il linguaggio in maniera più consapevole e sperimentale. Per esempio, un paio di film mainstream di Hollywood di quest’anno – “Spiderman into the spiderverse” e “Booksmart” – li ho trovati molto innovativi nella forma. Quello che cerco nei film sono inquadrature, montaggio e scene che creino un forte impatto di emozioni, idee e sogni. Sembro un po’ David Lynch, ma per me le inquadrature e i tagli di montaggio – unità di spazio e tempo – sono in un certo senso Junghiane o Einsteniane per il pubblico, specialmente nel cinema popolare. Molti festival europei combattono la giusta causa, continuano a premiare quel cinema, mantenendo accesa la fiamma dell’estetica del cinema. Ma la maggior parte dei festival ignora il cinema indiano, per esempio, e quindi hanno ancora molto da esplorare. Sono molto riluttante ad ammettere il concetto che il cinema popolare sia per forza di cattiva qualità autoriale. Ad esempio i film del grande regista egiziano Youssef Chahine sono stati a lungo ignorati dai festival europei, perché la sua estetica (musicale, melodrammatica, passionale) non era aderiva al modello aristotelico occidentale approvato dall’Europa.

Nel capitolo su “Eros e melodramma” c’è una parte dedicata a Kenneth Anger, con la scena dal film “Scorpio Rising” dell’uomo nudo picchiato dai marinai, illuminato da sotto. Feticismo e rock e rock ‘n roll. Tu dici “Il limite è saltato”e lo associ subito a Martin Scorsese e a “Blue Velvet” di Lynch. Invece a me ha fatto pensare alla scena iniziale di “The Master”, quando Joaquim Phoenix è sdraiato sulla nave insieme ai marinai e fa un sogno erotico dormendo con la bocca aperta. Trovi che questa associazione funzioni anche per te? Come fai le connessioni tra diversi film e autori?
Hai letto molti libri o solo visto moltissimi film?

Ho migliaia di libri di cinema e leggo ossessivamente, ma hai ragione a parlare di associazioni. Nel caso di Scorpio Rising, ha influenzato direttamente Scorsese e Lynch, quindi non ho fatto io la connessione. Ho usato quella scena anche perché volevo mostrare come l’immaginario culturale gay spesso sia ripreso dalla cultura etero. Ma anche la tua connessione funziona. Non so se P.T. Anderson sia fan di Kenneth Anger – ma sospetto di si – ma il corpo di Phoenix nella scena è crocifisso, composto alla stessa maniera dell’uomo in Scorpio. Più liberi si è nel fare queste connessioni visive, più si è creativi.

Ho notato un’altra somiglianza.  In uno degli episodi ad un certo punto affronti Ingmar Bergman: in una scena un prelato maltratta la sua amante/perpetua e lo associ allo stesso Bergman che maltrattava spesso la sua assistente donna. Ho notato lo stesso atteggiamento crudele nel film di Haneke “Il nastro bianco”, dove c’è una scena in cui un prete protestante, anche lì un uomo, ha un atteggiamento di dominazione e controllo sulla moglie, che viene considerata noiosa e insopportabile. La scena è girata dall’alto in basso, con un primo piano fisso e glaciale. Nel tuo documentario hai mostrato la relazione che intercorre tra il “fatto” che la storia racconta e il modo in cui è mostrato dalla macchina da presa. È un discorso che torna spesso.

Il cinema sta perlopiù nel rapporto che c’è tra quello che chiami “fatto” e il modo in cui ci viene presentato. Il materiale crudo e cucinato. Il contenuto è la forma. È difficile rovinare un “fatto” molto coinvolgente ed emozionante, ma i cattivi filmmakers – quelli che non hanno il senso della bellezza o del desiderio, la tensione, lo spazio, la speranza, il tempo, il vojeurismo o la composizione – possono rovinare anche le più rosee aspettative con un brutto film. Anche nella scena del documentario sulla Shoah di Claude Lanzmann, dove la macchina da presa è nascosta e il comandante di Treblinka quasi si vanta del meccanismo dello sterminio, il linguaggio gioca un ruolo. Il contenuto, il “fatto” è di per se così sconvolgente, terribile, che non dovrebbe importare come è girata la scena, e invece, ricordo con precisione l’inquadratura e l’immagine.

Che ne pensi degli sceneggiatori? Credi che ultimamente stiano scrivendo sempre lo stesso tipo storie prevedibili?

No. Non si può generalizzare. Se pensiamo che il cinema viene fatto in Romania, Polonia, Messico, Iran, Thailandia, Finlandia, Irlanda, Korea e molti altri paesi oltre all’America, la Francia e l’India, allora si vede che gli sceneggiatori scrivono molte cose in modi molto diversi.

Hai ricevuto delle critiche negative o hai avuto qualche scontro di opinioni sul film?
Nel cinema, come nel calcio tutti vogliono avere ragione, ci sono opinioni molto dure e anche scuole diverse.

Come molti registi non leggo le critiche, quindi per lo più non so cosa hanno scritto i critici su “The story of film”. Ma ho sentito che a due importanti critici americani – Jonathan Rosenbaum and Roger Ebert – il film non è piaciuto.

 

Un’osservazione che mi ha dato un po’ fastidio e che sia un resoconto molto personale e soggettivo della storia del cinema. Concordo che la mia scelta di scene singole sia molto personale, ma ho coperto la produzione cinematografica di tutto il mondo e ho parlato di molte registe donne.
Sono molto più soggettive le opinioni dei critici maschi bianchi che hanno scritto – indovina cosa? Decine e decine di Pagine di libri di Storia del Cinema che parlano solo di registi maschi e ignorano il cinema dell’India o dell’Africa. La cosa buffa è che spesso questi maschi bianchi siano visti come la “voce neutrale di dio.”  Ah Ah…

 

Redazione Storytellas snc