“I segreti che pensi non ti uccideranno sono quelli che alla fine ci riescono.”
Seguendo gli episodi di Gipsy, in onda su Netflix, è impossibile non pensare a quel capolavoro di Mulholland Drive del 2001, di David Lynch. Nel racconto dell’autrice Lisa Rubin, non troviamo incidenti stradali a Los Angeles o eccentrici divi di Hollywood alle prese con vernici rosa e scatole blue, ma esiste in questa serie un preponderante senso del doppio, legato all’interpretazione di Naomi Watts, che lascia piacevolmente coinvolti e sorpresi. La giovane Naomi Watts di Lynch ci appariva come una ragazza fragile e delicata appena giunta ad Hollywood, tremendamente esposta al male (quasi ad avere paura per la sua incolumità) con quell’innocente aspetto da contadinella del nord che poco dopo si trasformava, durante un provino e sorprendendo tutti, in un’attrice passionale ed esperta. Anche la Naomi Watts di Gypsy, la psicologa Jean Halloway, avvolta dai suoi abitini di marca, madre e moglie modello del Connecticut, si rivela ad un certo punto manipolatrice e scaltra. Il tema del doppio e dei segreti viene portato avanti con estrema abilità, come se dietro ad ogni bugia ci fosse un vero e proprio cadavere. Alla base di tutto c’è un desiderio, voluto e messo in pratica da parte della psicologa di entrare nella vita dei suoi pazienti a tal punto da conoscerne la vita intima e inconscia.
E per farlo Jean instaura delle relazioni segrete con le persone intimamente legate ai suoi pazienti.
Ma perché lo fa? L’originalità della serie è forse in questo. Non lo fa per alcuna ragione ben precisa. Non siamo di fronte ad alcun NEED morale. In fondo perché è una narcisista patologica tanto quanto lo sono i suoi pazienti, lo fa per sedurli, per conoscere i loro segreti così da poterli salvare. Consapevoli del fatto che ormai in analisi ci si va prevalentemente per “riprendersi” da un abbandono, per un attimo si ha il dubbio che Jean Halloway voglia attraverso l’esperienza diretta dell’altro, riuscire a far ritrovare l’amore ai pazienti distrutti.
Ricongiungendoli con un nuovo sé dopo aver perso il loro centro emotivo, finiscono per ritrovarlo in lei, l’analista. Un’empatia alle estreme conseguenze, insomma. Un’empatia però che alla fine risulta priva di amore, perché è il ‘nomadismo emotivo’, il piede sempre pronto a scappare dalle gabbie sentimentali che portano Jean a vivere più di una vita.
Il tutto condito con un sottofondo erotico privo di appeal. Le dinamiche si spengono facilmente e i personaggi, quando consumano ogni conflitto finiscono inevitabilmente in camera da letto, dove vivono esperienze sensuali prive di eros, forse anche per colpa della regia di Sam Taylor-Johnson, la stesso di 50 sfumature di grigio, che ha la tendenza a fare grandi scene fumose, piene di corpi nudi e d’incenso, di baci e di risucchi vuoti e noiosi.
Ma eliminando l’aspetto psico erotico e alcuni cliché, la trama dei segreti è affascinante.
Il dualismo ontologico pervade la scrittura in modo fluido: la seconda Jean si chiama infatti Diane, è single e vive in un appartamento che la psicologa Jean non ha mai venduto, raccontando bugie alla sua famiglia per anni; Diane indossa un profumo e Jean ne indossa un altro. Per finire, la sua unica figlia di soli 9 anni è indecisa se essere una femminuccia o un maschietto, tant’è che alla fine interpreterà Peter Pan nella recita scolastica, sperando di rimanere imprigionata in un’infanzia infinita per non dover mai decidere.
“I segreti che pensi non ti uccideranno, sono quelli che alla fine ci riescono” e così Jean porta fino alle estreme conseguenze i suoi segreti, manipolando tutti i suoi personaggi con sms continui e fastidiosi per ritrovarsi poi inverosimilmente a regredire allo stato di bambina, incapace di guardarsi obiettivamente indietro e vedere cosa ha combinato.
Giuliana Liberatore