AMERICAN HORROR STORY 6 – ROANOKE
Ryan Murphy’s guide on how to troll your fans
di Fosca Gallesio
Analisi della struttura di AHS-6: un remix di di fake-television che racconta l’orrore del sistema mediatico contemporaneo..
Ryan Murphy è uno dei più importanti showrunner americani, capace di raccontare come pochi le complessità della società USA. Insieme al socio, Brad Falchuck ha creato Nip/Tuck (2003-2016), una delle serie più innovative e provocatorie della new-wave seriale, sulla vita di due chirurghi plastici di LA, che raccontava in modo disturbante e feticista, le complesse implicazioni fisiche, psicologiche ed etiche della manipolazione artificiale del corpo.
Le produzioni di Murphy si caratterizzano per la forza con cui definiscono la propria identità tematica, nell’estetica visiva e nelle scelte produttive del cast di attori e nelle campagne di marketing. Il suo stile sofisticato è sempre coerente con il tema, i personaggi e il genere della narrazione. Murphy esibisce la sua identità queer, con l’orgoglio esibizionista del Pride, provocando, ma anche evocando, senza mai essere banale nella costruzione dei personaggi e della loro interiorità. Il suo intuito per i temi caldi al centro dell’attualità (il desiderio di realizzare i propri sogni di gloria degli adolescenti del musical Glee, i problemi etici della spettacolarizzazione della giustizia in American Crime Story: OJ Simpson, la questione dell’identità sessuale e il ruolo delle donne nella società) ha fatto si che le sue serie siano diventate fenomeni di massa di successo internazionale. Con una fanbase molto attiva sui social, un cast ricorrente di star, scoperti o riscoperti da lui (Sarah Paulson, Evan Peters, Cuba Gooding Jr)), Murphy è uno dei più abili narratori della contemporaneità.
Nel 2011 Murphy e Falchuck lanciano American Horror Story – una serie horror inizialmente in formato antologico (ma che poi collega le 8 stagioni in un universo narrativo coerente). Il concept è chiaro fin dal titolo: storie dell’orrore Americano. L’America è l’arena, come dimensione spaziale e temporale: ogni stagione ha una localizzazione, che funziona anche come reference tematica (per esempio le streghe della 3 sono a New Orleans e si fa riferimento sia alla tradizione neo-pagana delle White Whitches, che al Vodoo Afro). Dal punto di vista temporale, il piano narrativo principale è contemporaneo, ma ci sono continue incursioni nel passato (e qualche precognizione del futuro), che hanno dato vita a una cronologia parallela e alternativa alla storia reale americana (timeline completa delle prime 8 stagioni).
Gli autori intrecciano leggende e fatti storici, cronaca e fiction – attingono dal patrimonio culturale in senso ampio.
Poi c’è il genere: l’horror, genere derivato dal fantastico. E l’elemento fantastico soprannaturale è fondamentale, perchè lo contraddistingue da altri generi, come il thriller (che di solito tratta storie magari cruente, ma reali o realistiche). L’emozione fondamentale dell’horror è la paura, che ha una grande potenza catartica, soprattutto nella messa in scena finzionale, perché il pubblico fa esperienza del brivido, ma poi può tirare un sospiro di sollievo, tranquillizzato dalla protezione dello schermo.
Le storie dell’orrore esplorano il tema della morte e dellla violenza, se preferite il male, in quanto tale, in quanto possibilità filosofica. Perché esiste il male? È una questione su cui ci si interroga fin dalla notte dei tempi, infatti il racconto horror affonda le sue radici nelle religioni e nelle credenze, nel folklore, nei miti e nelle leggende. E anche questo il suo fascino. Quella linea sottile che separa il vero dal falso, la realtà dalla leggenda. Quella nebbia che avvolge i miti e che ci fa chiedere: sarà successo davvero?
La paura è anche però l’emozione più soggettiva e personale, perché ognuno ha paure, o fobie, diverse a seconda del proprio percorso individuale. Gli psicologi spiegano che lo sviluppo della personalità del neonato è determinato proprio a partire dalle deprivazioni che ha dovuto soffrire da piccolo – dal senso della mancanza, di qualcosa di vitale, che teme non torni mai più (il trauma della mancanza del nutrimento materno). Le paure si agganciano a elementi inconsci, sia a livello individuale che collettivo, ma l’inconscio produce dei sintomi che fanno emergere la sua verità.
A livello collettivo si producono dei trend fobici, dei momenti in cui la società è spaventata da un particolare tipo di fenomeno – che di solito parte dal reale, dalla cronaca, per poi essere raccontato dai media con tutti i suoi molteplici linguaggi e forme, fino a sedimentarsi come fatto storico assodato su wikipedia. Questo processo è oggi veloce, complesso e confusionario; si intrecciano questioni fondamentali a livello di rapporto tra evento reale – il fatto; racconto giornalistico veritiero (con le problematiche di fact-checking, agenda setting e manipolazione dell’informazione – pensiamo al problema delle fake news e alla cosidetta Post-Verità); e lo storytelling finzionale, che è naturalmente portato – per creare effetti drammatici più efficaci – a confondere lo spettatore, alternando i diversi piani di realtà.
Sul piano della narrazione, del patto con lo spettatore, Murphy dichiara che la serie è una storia inventata, ma inzuppata in un quantitativo esorbitante di citazioni e riferimenti horror, che evidenziano le molte contraddizioni della società americana. In AHS Murphy intreccia abilmente eros e thanathos, con storie dalle forti connotazioni morbose, violente e provocatorie. Spostando il limite della visione e dell’orrore sempre più in là. Lo stesso Murphy si stupisce di come le uniche note che riceve dalla rete siano più sul sesso che sulla violenza: “Puoi mozzare la testa a una donna a patto che non si vedano le tette! Assurdo.” E proprio il puritanesimo moralista della società americana è una delle tematiche principali. Al posto della sessualità è stato messo l’omicidio: “Quando in un film vedi una coppia che si apparta sai che finirà male.”
La stagione 6: marketing e suspence
Nel 2015 la stagione 5 Hotel, nonostante la presenza di Lady Gaga, delude i fan. L’anno successivo Murphy lancia la nuova stagione promettendo: “Un’esperienza del tutto nuova e diversa per il pubblico.” La responsabile del marketing della rete FX Stephanie Gibbons racconta che per la stagione 6 hanno deciso di giocare tutto sul mistero e il segreto. (link) La strategia di marketing è stata quella di mantenere il segreto assoluto su cast e argomento, con set blindatissimi e canali social delle star ipercontrollati. Si è poi usata la tecnica delle false piste, diffondendo 24 diversi video teaser, per confondere le acque. Ogni teaser di pochi secondi fa riferimento ai diversi canoni del genere, cambiando completamente atmosfera e riferimento, con uno stile unico e riconoscibile anche nella declinazione estetica. Dall’impressionismo tedesco, ai classici anni ’50, c’è tutto il mondo dell’horror.
Sfruttando la forte simbologia satanica legata al numero 6, si è creato un logo multiforme, che combina il numero 6 con il punto di domanda. Un chiasmo grafico, declinato in ogni teaser secondo lo stile del modello di riferimento.
Gibbons dice: ”Penso al pubblico di FX come una massa psicografica, più che demografica.” E adotta una strategia di marketing seduttivo per stimolare il pubblico: “Wanting is more fullfilling than having.”
Primo atto: My Roanoke Nightmare, un Fake-DocuDrama dell’orrore
Analizziamo la struttura della stagione, quindi massima SPOILER ALERT, se non volete rovinarvi la serie, tornate dopo la visione. La serie inizia come un mockumentary, più esattamente riproduce il formato dello scripted reality, inscenando un programma tv-factual che si intitola “My Roanoke Nightmare.” Il format alterna interviste (confessione) ai protagonisti di una ghost-story (supposta) reale, con ricostruzioni drammatizzate con attori e tecnica cinematografica. Naturalmente il pubblico vero di AHS sa di trovarsi di fronte a un’opera di fiction, ritrova il cast abituale sia nella parte documentaria che nella parte drammatizzata. Si tratta di pseudo-documentario, perchè il travestimento della serie è esplicito e per lo spettatore sono chiari i 2 diversi piani della narrazione.
La storia è semplice: gli sposini Shelby e Matt Miller si trasferiscono in una magione coloniale in North Carolina, dove iniziano a succedere fatti strani e misteriosi. Un classico del genere, che fa riferimento a Amityville (1979) basato sull’omonimo bestsellers di Jay Anson, che pretendeva proprio di essere il resoconto di una vera ghost-story. Il pubblico smaliziato già prevede l’escalation degli eventi paranormali, mentre il pubblico più naif è incuriosito dall’inedita tecnica di narrazione.
Ma l’alternanza tra docu e fiction genera anche un ulteriore effetto di parodia. Mentre le interviste a Matt e Shelby veicolano gli elementi più emotivi e personali, caldi, che generano una forte empatia; le ricostruzioni assumono un registro leggermente parodico, di realtà aumentata, con un tono più enfatico e drammatico e allo stesso tempo sarcastico e parodico.
Nell’intervista Shelby racconta quello che ha pensato e la sua motivazione interiore, nella ricostruzione Sarah Paulson agisce direttamente. Nelle interviste c’è un clima intimo da confessionale, emerge una verità personale, diversa a seconda di chi la racconta.
Nell’alternanza drama/docu emerge il contenuto implicito del conflitto tra moglie e marito: Shelby – ipersensibile, salutista, insegnante di yoga – vuole lasciare la casa, mentre Matt – razionale e riflessivo – vuole restare, visto che ormai hanno investito tutti i loro soldi.
Il marito Matt nella prima puntata parte per un viaggio di lavoro e chiama la sorella Lee (Adina Porter) per non lasciare la moglie da sola. Lee è un terzo punto di vista (POV) fondamentale da un punto di vista drammaturgico e strutturale. La sua storyline serve ad enfatizzare il conflitto e alzare la posta in gico; inoltre aggiunge un terzo polo, che permette di triangolare i fatti paranormali, per indagarne la natura e la veridicità.
Infatti opponendo i racconti di solo due personaggi, per di più moglie marito, sarebbe facile giustificare i fatti paranormali come alibi o copertura per non ammettere una violenza reale. Quindi cosa si aspetta il pubblico? In partenza abbiamo solo una certezza: tutti gli intervistati sono rimasti vivi. Fatto incontrovertibile, perchè le interviste sono cronologicamente posteriori ai fatti narrati.
Realtà splitatta: documentario soggettivo vs. reality immaginario
I pov (point of view) protagonisti sono dunque Matt, Shelby e la cognata Lee. Accanto ai loro punti di vista caldi, vengono affiancati dei punti di vista freddi – nel senso di meno emotivi, ma più attendibili da un punto di vista della realtà dei fatti. Si tratta perlopiù di figure istituzionali, che si suppone dicano sempre la verità, anche se nella contrapposizione di realtà e finzione diventa evidente come ognuno voglia solo levarsi i problemi dai cojoni prima possibile. Quindi sono le omissioni e l’intreccio dei diversi discorsi, che rendono evidenti le discrepanze, creando degli (apparenti) buchi di trama.
Il personaggio di Lee è particolare: ex poliziotta, licenziata per abuso di psicofarmaci, presi per lo stress da burnout; ha in corso una faticosa battaglia legale con l’ex marito per l’affidamento della figlia. Donna d’azione, pragmatica, nonostante le sue debolezze (è anche alcolista), vuole far di tutto per stare con la figlia, Flora.
All’inizio Lee (nella ricostruzione, Angela Basset) porta la figlia nella casa, senza avvisare l’ex-marito. Flora è la prima a parlare con i fantasmi e dichiara di avere un’amica sua coetanea che si chiama Priscilla. Flora rappresenta l’innocenza e la purezza, l’unica che ancora crede nelle favole, ed è la chiave di volta del punto di vista fantastico, a cui nessuno crede inizialmente. Poco dopo però Flora scompare misteriosamente, c’è un’assidua ricerca che coinvolge anche la polizia, sopragiunge l’ex-marito di Lee incazzato nero, ma Flora non si trova. Dove può essere finita? Possibile che sia sparita con la sua amica immaginaria Priscilla? Ma allora perchè la sua felpina viene ritrovata incastrata in cima a un albero altro 3 metri?
Inizia a crearsi un clima di tensione in cui non si capisce più cosa sia reale e cosa sia una fantasia o una menzogna. Lo sguardo di parte di ogni pov racconta nelle interviste la propria versione dei fatti, mentre la ricostruzione drammatizzata si fa sempre più agghiacciante nella moltiplicazione dei fenomeni e dei misteri.
Il tasso di paranormal activity cresce sempre di più. Appaiono fantasmi di varie epoche: una folla inferocita in abiti del XVII sec, comandata da una donna che si fa chiamare “la macellaia” (Kathy Bates), una famiglia campagnola di gente disturbata e stramba (come in Un tranquillo weekend di paura, o Non aprite quella porta) cui la polizia locale non sembra dare gran peso, considerandoli solo “un po’ tocchi”; poi viene trovata una videocassetta del precedente proprietario della casa, un antropologo (Denis O’Hare) andato lì per studiare i misteri della casa. Quando i Miller visionano quella che sembra la sua ultima testimonianza, il prof racconta che credeva che le storie dei fantasmi fossero un’invezione e invece ha avuto la prova che è tutto vero. Il fatto che sia un antropologo e scienziato, dà alla sua esperienza un valore aggiunto di credibilità scientifica e razionale. Peccato che, dopo aver annunciato nel video di aver trovato una via di fuga sicura, la camera ha uno scossone, casca a terra e si intravede l’assassino con la testa di maiale!
Inizia a crearsi un mélange di riferimenti interni al genere horror cinematografico e alla paranormal television1, che crea una spirale confusionaria tra piano della realtà dei fatti, piano personale dei pov e piano della narrazione. Ma nell’aternanza continua tra documentario e drama, emerge la consapevolezza che stiamo sempre guardando una serie, quindi lo spettaore a casa è consapevole di trovarsi davanti a un fake. Potremmo definire My Roanoke Nightmare un fake-docudrama horror.
In questo senso la serie contenitore, American Horror Story 6, si presenta come uno Pseudo-documentario. Un sottogenere della Fake-fiction, che usa la tecnica documentaria per raccontare fatti inventati. Pioniere del genere fu Orson Welles che puntava a satirizzare il potere dei media nella costruzione dell’immaginario, sia con la trasmissione radio dell’Invasione dei Marziani che con Citizen Kane.
Questo pseudo-documentario si conclude come arco narrativo con l’episodio 5 della serie. Murphy aveva annunciato un grande turning-point a metà stagione. Cosa racconterà la seconda parte di Roanoke? E soprattutto con che linguaggio? Si tornerà alla narrazione finzionale tradizionale?
La risposta nel prossimo post. Stay tuned…