Ryan Murphy’s guide on how to troll your fans
SECONDA PARTE
La post-verità e l’estetica del fake
di Fosca Gallesio
Per un’analisi corretta di AHS-Roanoke è importante considerare il contesto USA. Siamo nel 2016 – la serie va in onda a settembre – in piena campagna presidenziale Hilary Vs. Trump ed esplode il fenomeno delle fake-news in una guerra di tweet che poi sappiamo come è andata a finire.
Quindi fare delle riflessioni sul concetto vero/falso (real/fake) e sullo statuto della narrazione mediatica di temi forti come la morte e la violenza, temi de paura, è un coraggioso atto politico. È affrontare la disgregazione della realtà nell’ality, la dimensione parallela dell’Isola dei Famosi, Adamo ed Eva, Survival, etc… dove gli agenti nello schermo non sono più visti come persone reali, ma come personaggi, da odiare o deridere. Da sputtanare sui social in qualsiasi momento, non appena un cellulare cattura qualcuno che è stato in tv in una situazione ordinaria, ridicola o vergognosa, per lui è finita, è esposto alla shit-storm globale (è più uno è famoso, più se la rischia).
Ormai una fotocamera cellulare è in mano di tutti e infatti dilaga l’ossessione delle spiate fatte e ricevute. Questo uso fuori controllo del video (in assenza di regole di deontologia nella trasmissione e condivisione di contenuti) ha portato anche a crimini e violenze davvero agghiaccianti. Il fenomeno dell’odiare fa bene, dei leoni da tastiera e delle esposizione al pubblico ludibrio universale di twitter è realmente pericoloso, soprattutto per le vittime (solitamente donne), che sentendosi sputtanat a gratis, possono arrivare fino al suicidio (penso al caso di Tiziana Cantone, ennesima vittima del patriarcato italico – che mi ha fatto venire voglia di un nuovo format Patriarcality, con Greta Gumberg che fa pipì in bocca a Feltri… vabbè sto divangando).
Mid Point: l’iperrealtà del fake. Return to Roanoke: Three Days in Hell
La storyline di My Roanoke Nightmare si conclude al quinto episodio di AHS. A quel punto ti chiedi e nelle prossime 5 puntate che succederà? Quel geniaccio di Murphy continua sulla strada della fake-fiction. La seconda parte di Roanoke è infatti il sequel del docudrama.
Nell’universo finzionale di AHS, My Roanoke Nightmare è andata in onda con enorme successo. L’episodio 6 si apre con lo show-runner Sidney (un cinico e spietato Cheyenne Jackson,
(LINK) che imita caricaturalmente lo stesso Murphy) che decide di battere il ferro finchè è caldo e propone una seconda stagione al network. seguito alla rete. La puntata inizia con Sidney, sguardo in camera, che ordina al suo cameramen di riprendere assolutamente tutto, che se anche lui gli dicesse di smettere, deve continuare a riprendere, vuole documentare ogni cosa, a partire dal pitch con la rete. La riunione con gli executive della rete è una scena surreale: si chiedono come possa essere fatta una seconda stagione, visto che la prima arrivava a un fineale ben definito. Il problema è che nessuno crede davvero alla storia raccontata dai Miller. Siamo gente razionale, non crediamo ai fantasmi. Allora qual è la ciccia della seconda stagione?
Sidney: The drama is reality!
Executive: So it’s… fake?
Sidney: Reality is what we make of it
Sidney propone di prendere gli attori della serie e gli stessi Miller più Lee e metterli tutti insieme nella casa, proprio nel periodo maledetto della Luna di Sangue, quando, secondo la leggenda, i fantasmi si materializzano e possono uccidere davvero.
Ma cosa ci possiamo aspettare che succeda davanti alle telecamere se la storia di fantasmi è considerata falsa (immaginaria)?
Drama in inglese significa in senso lato un contenuto audiovisivo di finzione, una fiction. La battuta di Sidney: la fiction è il reality è da leggere quindi come un ossimoro. Siamo in una dimensione real o fiction? Gli executive della rete sono molto confusi: quindi è tutto un fake? Per il pubblico rischia di essere una delusione, perchè il fake è una menzogna. E per spaventare davvero i protagonisti si dovrà ricorrere a trucchetti ed effetti speciali che rischiano di deludere il pubblico, perchè il bello della prima parte è che sembrava reale (grazie all’emotività delle interviste), appariva come vero (nella ricostruzione drammatica), anche se uno non crede ai fantasmi. Quello che gusta il pubblico dell’horror è proprio questa linea di confine tra credere e non credere, che permette di godere la paura, protetti dal velo della finzione, della messa in scena. Il bello era proprio la possibilità di credere che quella storia fosse vera, ma nel confort della propria casa, protetti dallo schermo tv. Purtroppo dal punto di vista del pubblico (e dei commitenti del Network) per una seconda stagione la stessa storia perde in verosimiglianza e credibilità, ha bisogno di essere caricata di forza drammaturgica proveniente dal reale.
The real Butcher
Inoltre all’interno del contenitore generale, AHS, siamo solo al mid-point, Murphy sfrutta l’aspettativa del pubblico per un turning point che è letteralmente un capovolgimento della prospettiva, un controcampo che svela il volto del fake-showrunner, e porta a un cambiamento del format parodiato.
Dal docu/drama al fake/reality. È un gioco di scatole cinesi: la serie fiction AHS 6 contiene 2 stagioni di un tv-show, di cui la prima è una docu-drama e la seconda un reality-show che include elementi di backstage che rimandano ironicamente alla serie contenitore. È molto complicato, mi rendo conto, ma questo avvitamento è proprio ciò che rende appassionante la visione. In questo modo Return to Roanoke assume un elemento narcisistico, o metalinguistico, che lo rende una pungente satira della tv contemporanea.
Paranormal Reality: farsene una ragione
Teniamo presente che i reality come format non si mettono sul piano del reale, dei fatti. Tendenzialmente le telecamere arrivano sempre dopo o quantomeno non riescono mai a inquadrare tutto, soprattutto quando si parla di fenomeni paranormali.
Programmi come Ghost Hunters o Haunted Encounters, definiti reality sul paranormale, spesso mettono in scena tecniche pseudo-scientifiche per verificare la presenza di fantasmi. Secondo alcuni critici sono programmi ridicoli e assolutamente trash, simili al softcore pornografico; ma secondo altri hanno un’importante funzione epistemologica, affrontando il tema della paura della morte. Diane Dorby: “Questi reality sul paranormale forniscono agli spettatori delle strutture di plausibilità che aiutano a interpretare il significato e l’esperienza della morte e del lutto.”
Dopo il mid-point Roanoke fa un salto dimensionale: non siamo più nel reale, siamo dentro la tv, siamo sul piano del linguaggio. Lo schermo tv non è più il velo che protegge dalla finzione, ma uno specchio che riflette, una dimensione parallela, quasi uguale alla nostra in cui al posto di Ryan Murphy lo showrunner è Sidney. La diade non è più reale/virtuale, ma reale e finzionale, che è sempre da considerare come il racconto di un punto di vista (un autore o, sempre più spesso, un mentitore, una persona che usa la comunicazione per influenzare il pubblico secondo la sua agenda), l’immagine non è mai neutra, come l’occhio non può. Infatti l’elemento essenziale del linguaggio audiovisivo – già intuito da Ejzenstein – è il montaggio, tutta la storia del cinema è una battaglia per il final cut. Quello è il potere.
Questo salto dimensionale offre tutta una serie di occasioni di satira del mondo dei media e di gustosissimi episodi autoironici. Ad esempio più avanti nell’episodio si vede la casa che viene scenografata, ma uno dei macchinisti muore per un misterioso incidente sul set – presagio di sventura – Sidney però rifiuta di interrompere la lavorazione, mostrando tutta la sua noncuranza e miscredenza nel paranormale, il cinismo dei media, che però gli costerà caro.
Al pitch col network la produttrice chiede perplessa: ma allora è tutto finto, fake? Il problema è che si rischia di deludere il pubblico. La risposta di Sidney è scioccante: la realtà la facciamo noi. In inglese si gioca sulla doppia significazione di reality, format e reale. Il punto è proprio che diventa reale quello che noi vogliamo che sia reale, quello che crediamo lo sia. Mai sottovalutare il potere della suggestione, soprattutto quando si parla di fenomeni di massa.
Giustizia è fatta… In TV??
Ma ricordiamoci che stiamo vedendo American Horror Story. Che visione di Storia presenta? La storiografia è una narrazione di fatti, una narrazione a posteriori che non può essere neutra, è sempre un punto di vista sulla verità. É come la famosa frase che i libri di storia li scrivono i vincitori. Ma qui stiamo parlando di televisione e formati e cinismo dei media, è come dire che ormai la Storia è scritta dalla televisione, e la realtà non è più tale, ma è sempre una “realtà percepita”, nel senso di condizianata e orientata secondo un preciso interesse.
Interesse di che tipo? Qualunque, di marketing, politico, morale, religioso. Ovvio che fa riferimento alla Società dello Spettacolo di Lyotard, ma ora siamo oltre, la tv ha invaso tutto. È ancora di più, ancora più post e ultra e meta e tutti i prefissi di lancio che potete immaginare. É una società dove si riaprono i casi giudiziari dopo i documentari su Netflix!
E proprio il tema del giudizio, sia in senso criminale, come responsabilità penale, che in senso morale e sociale, come pregiudizio, opinione diffusa tra la maggioranza che finisce per marginalizzare le minoranze, è messo al centro di AHS-6. Murphy riflette anche sulle conseguenze che il sistema mediatico ha sulle istituzioni (giudiziarie e di polizia) mostrando con efficacia la fragilità dell’America contemporanea.
Da un punto di vista drammaturgico invece, il tema del giudizio (da parte del pubblico) è utilizzato come gancio, un elemento teasing che porta il pubblico a sintonizzarsi. E questo elemento viene subito presentato come un pregiudizio raziale e sessista, indirizzato verso il personaggio di Lee.
Dalla visione di My Roanoke Nightmare infatti il pubblico ha desunto che Lee abbia ucciso il marito – che è stato ritrovato nei boschi massacrato, ma non è ben chiaro se sia stata lei (con il movento di ottenere la custodia della figlia) o il paranormale (ma fin’ora il paranormale è considerato una cosa da matti). Insomma il pubblico vuole giustizia, c’è un desiderio di punizione, quasi sadico, che si vuole soddisfare.
Cosa vuole la gente?
Faccio una postilla sul piacere derivato dalla visione dei relity. Alcuni critici hanno rilevato che il successo di questi programmi dipenda dalla nozione di schadenfreude (LINK)
una parola tedesca che significa l’esperienza di godimento e gioia nel vedere le sofferenze altrui. Una sorta di godimento sadico, che la televisione sfutta senza pietà specialmente nei reality. Ci sono 3 tipologie di questo particolare godimento: basato sull’aggressività – legato all’identità di gruppo, in cui si gode nel vedere le sventure di un altro gruppo rivale. Basato sulla competizione individuale – la classica gioia del vincitore, che si sente rafforzato nella sconfitta del rivale, qui siamo nell’ambito dell’autostima e del valore personale. Infine c’è la schadenfreud basata sulla giiustizia, che riguarda i valori morali in cui si crede, è il desiderio di vedere giustamente puniti i responsabili di atti immorali e criminali. Una cosa che in America sanno fare molto bene, si pensi a tutte le pluralità di significato storico e politico dell’espressione “caccia alle streghe”. Murphy inserisce sottili critiche e riflessioni su tutti i 3 tipi di godimento sadico, sarebbe troppo lungo riassumerli, ma la sua visione della depravazione moralistica a cui è giunta la società americana è sorprendente.
Azione: building horror reality
A questo punto allo showrunner Sidney non resta che convincere i vari personaggi a partecipare. Senza entrare troppo in dettagli di trama (se siete interessati alle dinamiche di manipolazione dei reality consiglio la visione di Unreal), basta dire che il reality continua mostrando anche il backstage delle interviste che Sidney fa ai protagonisti. Si nota come Sidney dia a ognuno di loro una diversa versione del vero motivo per cui dovrebbero fare lo show. A quelli più restii a partecipare dice che sono fondamentali; mentre a chi non vede l’ora di tornare davanti alle camere, dice che purtroppo non saranno nella seconda stagione. La tecnica manipolativa della menzogna è solo una provocazione, per far leva sulle debolezze personali e suscitare reazioni impulsive.
Sidney sta facendo il suo lavoro: aizzando i protagonisti uno contro l’altro per alzare la posta in gioco e creare conflitto. Ma forse va un pochino troppo oltre il limite etico.
È interessante la storia del personaggio di Kathy Bates, che interpreta Thomasin, la macellaia, la capogruppo della folla dei fantasmi di Roanoke. La leggenda di Roanoke è una storia reale di una colonia inglese stabilitasi in North Carolina nel alla fine del ‘500, nel territorio dei nativi Croatan(LINK)
La colonia pativa la fame e nella prima parte della serie si è già raccontata la para/storia per cui alcuni coloni, soprattutto gli uomini maturi, partono per una spedizione in cerca di cibo, ma non tornano più. Dopo una lunga attesa, Thomasin, moglie del capo della colonia e reggente temporanea, inizia un percorso demoniaco che la porterà a trasformarsi nella macellaia. Thomasin incontra nel bosco la strega Scáthach (Lady Gaga) e fa un patto con lei per scampare dalla fame. Il patto però esige che in cambio Thomasin e i coloni offrano alla strega sacrifici umani e così la colonia inizia a commettere orrendi riti e atti di cannibalismo.
La Bates in questa seconda parte ha il ruolo di Agnes, l’attrice che interpreta la macellaia nel docudrama. Il problema è che Agnes ci è rimasta sotto. Si è identificata totalmente con il ruolo, il primo vero ruolo importante della sua vita, e ha avuto una attacco di delirio andando in giro per Los Angeles con una mannaia.
Quando Sidney la va a trovare e la intervista, lei sembra ristabilita, racconta che prende le medicine e ora è seguita dai medici e non vede l’ora di iniziare le riprese del nuovo show. Ma Sidney con un sorriso costernato le dice che lei non parteciperà, perchè sono preoccupati del suo stato di salute mentale. Sidney smonta le telecamere e va via, mentre Agnes ha una nuova crisi isterica e urla: “Non potete farmi questo. Sono io la macellaia!” L’assistente di Sidney fa notare che siccome Agnes si è trasferita a pochi chilometri dalla casa dove girano, sarà difficile che resti lontana dal set; “è proprio quel che mi auguro” è la cinica replica di Sidney.
Il fake reality continua con gustosissime scene autoironiche delle star nel confessionale, prese dalla mania dei social e dalla condivisione compulsiva. L’intreccio fra realtà e finzione assume toni soappish nella strana relazione tra la vera Shelby e l’attore che faceva Matt (Cuba Gooding Jr); ovviamente il vero Matt non l’ha presa bene e l’ha mollata, anche se pure Shelby aveva le sue ragioni, considerato che nella prima stagione lo ha visto accoppiarsi con la strega dei boschi. In uno strano grande fratello horror tutti i protagonisti, reali e finti, di My Roanoke Nightmare sono costretti a passare i 3 giorni maledetti della luna di sangue dentro la casa.
La confusione dei piani è totale e innesca una spirale diabolica, in cui però si muore davvero. Entriamo nella dimensione iperreale della tv, più vera del vero, piu horror dell’orrore. La tecnica actor’s studio dell’immedesimazione, porta al delirio paranoico e violento (sarà proprio Agnes a macellare Sidney e i suoi assistenti nel camper di produzione – portando ai massimi livelli la schadenfreude degli spettatori reali di AHS). Shelby, pur dichiarando di voler tentare una riappacificazione con Matt e che quella con l’attore è stata solo una sbandata (cosa che ferisce moltissimo l’orgoglio dell’attore) arriverà alla fine ad uccidere Matt, scambiandolo per uno degli spettri. Il punto è che nessuno sa più cosa è vero e cosa no, cosa è un trucco e cosa è un’allucinazione e questo porta alla follia.
Torna l’elemento della colpa e della responsabilità: non si capisce più chi ha ucciso, né perchè; se lo ha fatto “in pieno possesso delle proprie capacità” o perchè sotto influsso altro. Per esempio i Polk, la famiglia di weirdos che nella prima parte sembrava si disturbata, ma in fondo innoqua; si rivela essere una famiglia cannibale che coltiva marjuana da secoli e però hanno stretto un patto di convinvenza civile con i fantasmi della colonia, per abitare nello stesso territorio. Mama Polk (Frances Conroy) è la capofamiglia, che dal loro punto di vista è anche molto unita e agisce soprattutto per la propria protezione e interesse. Si c’è il dettaglio che gli piace mangiare carne umana, ma se nessuno avesse perturbato il loro equilibrio in fondo non facevano male a nessuno (quasi).
Si capisce bene che è stata proprio la presenza degli estranei della tv, la causa scatenante della violenza e dei crimini raccontati. Aver turbato l’equilibrio di forze naturali e soprannaturali del territorio di Roanoke, non ha fatto altro che inasprire la rabbia e acuire la violenza, con il risultato di moltiplicare il numero di cadaveri.
L’incubo di Roanoke si fa carne: let’s fuck reality
L’esplosione incontrollata delle pulsioni violente poggia sullo stesso meccanismo emotivo che ha portato alla proliferazione delle fake-news. Giacomo Costa spiega la logica della Post-Verità “che pare rovesciare il rapporto tra il valore dei fatti, che parla alla ragione, e quello di emozioni e sentimenti […] stiamo uscendo dalla modernità razionalista per addentrarci in una postmodernità della sensazione. Ma anche le emozioni hanno un ruolo nella ricerca della verità: sono segnali da leggere, mettendo a fuoco che cosa indicano.”
(Giacomo Costa) link
Three days in Hell è una macchina che porta alla follia i suoi stessi protagonisti. Mettere sullo stesso piano realtà e finzione, provoca un’epidemia paranoica che disintegra i corpi/mente dei suoi stessi protagonisti. Il tema profondo di American Horror Story 6 è proprio l’exploitation, lo sfruttamento cinico e assetato di sangue degli spettatori cannibali, pompato a violenza come una droga dai produttori e dagli sponsor.
Sarah Paulson nel ruolo di una terrorizzata Audrey Tindell persa nei boschi
Ma fino a dove può arrivare questa follia?
Quali sono le conseguenze reali del fake?
Cosa produce nei protagonisti, negli spettatori e nella società?
Ripartiamo dalla domanda drammaturgica più urgente, il tirante legato al personaggio di Lee: ha davvero ucciso il marito? E se anche fosse stata lei, lo ha fatto nel pieno possesso delle sue capacità mentali o sotto qualche influenza (delirio collettivo, abuso di alcool, i fattori esimenti della responsabilità sono di vario tipo e ordine)?
Sul finale del reality i Polk rapiscono Audrey, l’attrice che interpretava Shelby (Sarah Paulson) e le due versioni fake/real di Lee – il doppio finzionale è l’attrice Monet Tumusiime (Angela Basset). Lee è in una stanza da sola, legata a una sedia e mama Polks (Frances Conroy) le ha già tagliato una fettina di coscia, che viene offerta come unico cibo alle altre due prigioniere (in realtà c’è un terzo personaggio femminile, che sarà l’unica ad assaggiare il pezzettino di coscia senza capire cosa sia e farà una finaccia, perchè mangiare carne umana è sempre taboo). Lee, dopo la tortura, viene lasciata da sola con il più piccolo dei fratelli Polk, il più fragile e plasmabile (che ha anche la mania voyeuristica di riprendere tutto con la videocamera – elemento un po’ forzato ma funzionale al linguaggio found footage, per cui tutti i video che vediamo sono interni al racconto, cioè diegetici – è un po’ una forzatura a volte, alcuni fan si sono lamentati, ma la coerenza non è tutto).
Lee da ex-poliziotta sa come parlare ai criminali e inizia a a circuire il giovane Polk, creando con lui un legame empatico, mettendosi al suo stesso livello, senza essere giudicante, rovescia la relazione vittima/carnefice. Lee racconta che anche lei ha abusato di droghe e dice che loro due hanno molto in comune, ma presa dalla confessione, inizia a rivelare dettagli sempre più intimi, fino a che confessa di essere un’assassina e ammette di avere ucciso il marito. La scena è straziante, ma Lee approfitta di un momento di distrazione di Polk e riesce a liberarsi e scappare.
In questa seconda parte della serie, la tematizzazione del vero e del falso e le motivazioni che portano a mentire, diventano sempre più importanti. Ma rispetto all’argomento di moda delle fake-news, Murphy fa un’inversione: invece che un’informazione fake, crea una fake-reality, dando vita a una dimensione parallela, oltre i confini dello schermo, che è un’iperbole doppia: più vera del vero, più fake del fake.
La percezione del reale è ormai transitata oltre gli schermi, non è più realistica o attendibile, ma sempre soggettiva e influenzabile. Il dominio della tv non è reale, ma IPERREALE.
Ma Ryan MUrphy non è il tipo che dà soluzioni semplici a problemi complessi. Non è finita qui. Infatti la story-line di Three days in Hell si conlude al penutimo episodio di American Horror Story, lasciando ancora una misteriosa puntata finale.
(to be continued)